1 - Il Mago

Il Mago era assai potente nelle arti occulte, capace di grandi e oscuri prodigi, come trasformare il metallo in Musica, o ascoltare senza apparente fastidio i terribili lamenti dell’antica razza di ProZac+; tuttavia, la sua indole era buona. Pochi furono coloro che lo umiliarono, e poco vissero per raccontarlo. Solo il temibile Passaggio a Livello di Su Magh gli teneva testa, e mai riuscì al nostro di sconfiggerlo definitivamente; le battaglie contro di esso potevano durare secoli e secoli.
Innumerevoli le discussioni sulla fonte della sua forza; molti narrano di una portentosa pozione a base di bianco e castagne. In verità egli sostenne molte prove per acquisire cotanto potere; la più ardua di tutte fu il pellegrinaggio nelle lontane Terre Valenti, nome noto tra le razze lascive e dissolute; e c’è chi narra che il Mago che tornò fosse piuttosto diverso da quello che era partito.

0 - Prologo

Molto si narra (ma gli Dei sanno di più) di Eroi, di Bestie, di Terre dimenticate e sepolte dalla polvere dei secoli; ma nulla ha mai superato in magnificenza e bellezza i Canti della Gilda.

I più grandi storici ne hanno discusso il Vero Nome; Confraternita Suina è quello che ricorre più spesso. Ma per i nostri umili scopi, ci accontenteremo di chiamarla semplicemente Gilda.

La Marca del Leone Orientale era l’ultimo avamposto dei Possedimenti Marciani; oltre si estendeva il Patriarcato Aquilano, ed oltre ancora, la Città Innominabile e le Terre di Slavonia. Il Nord si perdeva nelle desolate Terre di Nessuno, le quali arrivavano a lambire le prime Montagne di Confine; l’antica città-isola di Caprula dominava il Mare Nostrum, che accarezzava la Marca a Sud. Ridente e felice era questa Terra, unica nei Possedimenti Marciani a resistere al Giogo delle Fabbriche; capoluogo ne era la Città delle Gru, fiera e piccola. Tuttavia, il grosso della Gilda era era nato e vissuto nel ridente villaggio di QumQuardia, locato qualche miglio a Sud della capitale. Nè grurino, nè quardino era il primo Eroe che cantiamo; veniva invece egli dal remoto borgo di Nono Marciano, dai bei vigneti.

Un infernale paradiso

Ho da poco iniziato a leggere Paradise Lost di Milton, nella curatissima edizione italiana Bompiani: testo a fronte e traduzione illustre, Roberto Piumini. Tanti soldini e tante soddisfazioni: il Lucifero miltoniano non è meno epico e ispirato di Ettore o di Macbeth. Per rendere perfetta l'edizione, sarebbe bastato aggiungere alcune delle stupefacenti incisioni di Doré sul tema. Provvediamo, limitatamente, in questa sede.

"[...] Here we may reign secure, and in my choice
To reign is worth ambition though in Hell:
Better to reign in Hell, than serve in Heav’n." 
John Milton, Paradise Lost (1667). Book I, vv. 261-264.

Satan Calls Forth His Defeated Legions. Gustave Doré, incisione.

Gigi Piria

Oggi ho sentito il più bel soprannome mai affibiato a persona:
Gigi Piria.

Gigi Piria.

Sinceramente, non riesco a pensare a nulla di migliore.

Digressione fantastica sulla morte

La morte investe di gloria le idee del morente. Vado oltre: la morte le rende reali e pesanti, libera un fardello che i posteri non possono ignorare, e li costringe a liberarsene con un sacrificio uguale. Socrate beve la cicuta perché sicuro dell'immortalità dell'anima, rendendo così immortale il concetto stesso; Giordano Bruno lo spazza e immortala l'idea opposta, bruciando in Campo dei Fiori. Schopenhauer cerca vita e morte da misantropo per perpetuare il proprio pessimismo, e vi riesce solo in parte, a causa della tarda amicizia di Wagner ed altri apostoli; arrischio ancora: Nietzsche abbraccia un cavallo e diventa pazzo perché vuole morire pazzo; o meglio, superuomo.

Vagabondo Aengus

Mi sono avvicinato a Yeats per caso; dieci anni fa, contagiato dalla fame tipica di chi ha appena scoperto la poesia, comprai un libriccino ritenendolo, causa stretta assonanza, una raccolta di Keats. All'inizio rimasi deluso: volevo la Belle Dame Sans Merci (Oh, what can ail thee, knight-at-arm...) e mi ritrovavo con un aviatore irlandese che vedeva, in un futuro vicino, la propria morte. 
Decantato il disappunto, imparai presto a conoscere e ad apprezzare questo non facile poeta. La svolta decisiva l'ha segnata Aengus e la sua fiaba eterea, forse per l'atmosfera vicina a molte storielle di De André.


Negli anni successivi l'ho riscoperta prima con Donovan, che la cantò nel 1971; successivamente con Branduardi, che coverizzò il lavoro dello scozzese, con una felicissima traduzione italiana. Un autore va sempre letto in lingua, fintanto che la si mastica; propongo quindi il testo originale. 

The Song of Wandering Aengus

I went out to the hazel wood,
Because a fire was in my head,
And cut and peeled a hazel wand,
And hooked a berry to a thread;

And when white moths were on the wing,

And moth-like stars were flickering out,
I dropped the berry in a stream
And caught a little silver trout.

When I had laid it on the floor

I went to blow the fire a-flame,
But something rustled on the floor,
And some one called me by my name:
It had become a glimmering girl
With apple blossom in her hair
Who called me by my name and ran
And faded through the brightening air.

Though I am old with wandering

Through hollow lands and hilly lands,
I will find out where she has gone,
And kiss her lips and take her hands;
And walk among long dappled grass,
And pluck till time and times are done
The silver apples of the moon,
The golden apples of the sun.

Faustiniana Clarissima Femina

Non avevo mai sentito parlare di Gino Facchin fino a poche sere fa, quando in un vile succo di stanchezza, cultura e campanilismo, ho sfogliato una ricca e curata antologia della storia di Concordia, o meglio della sua diocesi. Due volumi che da venti anni riposano, fin troppo, nel mio salotto.

Ho scoperto così le discrete doti poetiche di questo stimmatino di origini concordiesi, defunto circa otto anni fa. Quasi trentenne, dedicò una coppia di poesie al suo vecchio paese natale e alle importanti origini. Riporto il testo della poesia in oggetto, dedicato a Faustiniana, nobile matrona di fede cristiana del quinto secolo dopo Cristo, il cui prezioso sarcofago ognuno può ammirare negli scavi romani sotto piazza Costantini.

Il mio abito è lutto
e vietato è l’amore alle mie mani
spalmate d’olio santo.
Ma oggi accarezzo con pia voluttà
La conchiglia e il cantaro
e le foglie tenaci di palma
espanse sul tuo sepolcro,
Faustiniana.
Odora il nardo delle tue vesti
negli orceoli vuoti
e il tuo passo mi è accanto
più leggero del lungo silenzio
dei secoli, matrona,
nell’ombra soave di un sogno
per colloqui soavi
evocata.

Ci sono immagini notevoli e altre, secondo la mia modestissima opinione, un pò meno fortunate; per quanto mi riguarda, ho apprezzato molto gli echi dal Cantico dei Cantici, lontani ma presenti (I tuoi germogli sono un giardino di melagrane / con i frutti più squisiti / alberi di cipro con nardo / nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo; Cantico dei Cantici, 4,13-14); la felice enumerazione; la delicata sinestesia del silenzio leggero.

Per i più pigri, riporto la migliore foto del sarcofago che sono riuscito a scovare, e l’iscrizione che si può leggere su di esso, con traduzione. (Non è permesso, ahimè, fotografare l’interno degli scavi.)
 


FAUSTINIANA C(LARISSIMA) F(EMINA)
FAMULA CHRISTI
SE SUAMQUE SEPULTURAM
VIVENS CHRI(STI) S(ANCTO) TABERNACULO
AC SANCTORUM MEMORIAE COMMENDAVIT

Faustiniana, donna di rango senatorio,
serva di Cristo,
ancor viva affidò sé e il suo sepolcro
al tabernacolo di Cristo
e alla memoria dei Santi.