Vagabondo Aengus

Mi sono avvicinato a Yeats per caso; dieci anni fa, contagiato dalla fame tipica di chi ha appena scoperto la poesia, comprai un libriccino ritenendolo, causa stretta assonanza, una raccolta di Keats. All'inizio rimasi deluso: volevo la Belle Dame Sans Merci (Oh, what can ail thee, knight-at-arm...) e mi ritrovavo con un aviatore irlandese che vedeva, in un futuro vicino, la propria morte. 
Decantato il disappunto, imparai presto a conoscere e ad apprezzare questo non facile poeta. La svolta decisiva l'ha segnata Aengus e la sua fiaba eterea, forse per l'atmosfera vicina a molte storielle di De André.


Negli anni successivi l'ho riscoperta prima con Donovan, che la cantò nel 1971; successivamente con Branduardi, che coverizzò il lavoro dello scozzese, con una felicissima traduzione italiana. Un autore va sempre letto in lingua, fintanto che la si mastica; propongo quindi il testo originale. 

The Song of Wandering Aengus

I went out to the hazel wood,
Because a fire was in my head,
And cut and peeled a hazel wand,
And hooked a berry to a thread;

And when white moths were on the wing,

And moth-like stars were flickering out,
I dropped the berry in a stream
And caught a little silver trout.

When I had laid it on the floor

I went to blow the fire a-flame,
But something rustled on the floor,
And some one called me by my name:
It had become a glimmering girl
With apple blossom in her hair
Who called me by my name and ran
And faded through the brightening air.

Though I am old with wandering

Through hollow lands and hilly lands,
I will find out where she has gone,
And kiss her lips and take her hands;
And walk among long dappled grass,
And pluck till time and times are done
The silver apples of the moon,
The golden apples of the sun.

Faustiniana Clarissima Femina

Non avevo mai sentito parlare di Gino Facchin fino a poche sere fa, quando in un vile succo di stanchezza, cultura e campanilismo, ho sfogliato una ricca e curata antologia della storia di Concordia, o meglio della sua diocesi. Due volumi che da venti anni riposano, fin troppo, nel mio salotto.

Ho scoperto così le discrete doti poetiche di questo stimmatino di origini concordiesi, defunto circa otto anni fa. Quasi trentenne, dedicò una coppia di poesie al suo vecchio paese natale e alle importanti origini. Riporto il testo della poesia in oggetto, dedicato a Faustiniana, nobile matrona di fede cristiana del quinto secolo dopo Cristo, il cui prezioso sarcofago ognuno può ammirare negli scavi romani sotto piazza Costantini.

Il mio abito è lutto
e vietato è l’amore alle mie mani
spalmate d’olio santo.
Ma oggi accarezzo con pia voluttà
La conchiglia e il cantaro
e le foglie tenaci di palma
espanse sul tuo sepolcro,
Faustiniana.
Odora il nardo delle tue vesti
negli orceoli vuoti
e il tuo passo mi è accanto
più leggero del lungo silenzio
dei secoli, matrona,
nell’ombra soave di un sogno
per colloqui soavi
evocata.

Ci sono immagini notevoli e altre, secondo la mia modestissima opinione, un pò meno fortunate; per quanto mi riguarda, ho apprezzato molto gli echi dal Cantico dei Cantici, lontani ma presenti (I tuoi germogli sono un giardino di melagrane / con i frutti più squisiti / alberi di cipro con nardo / nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo; Cantico dei Cantici, 4,13-14); la felice enumerazione; la delicata sinestesia del silenzio leggero.

Per i più pigri, riporto la migliore foto del sarcofago che sono riuscito a scovare, e l’iscrizione che si può leggere su di esso, con traduzione. (Non è permesso, ahimè, fotografare l’interno degli scavi.)
 


FAUSTINIANA C(LARISSIMA) F(EMINA)
FAMULA CHRISTI
SE SUAMQUE SEPULTURAM
VIVENS CHRI(STI) S(ANCTO) TABERNACULO
AC SANCTORUM MEMORIAE COMMENDAVIT

Faustiniana, donna di rango senatorio,
serva di Cristo,
ancor viva affidò sé e il suo sepolcro
al tabernacolo di Cristo
e alla memoria dei Santi.