Ogni mattina osservo, dal treno, ostinati equiseti arrampicarsi lungo la scarpata ferroviaria. Celebravo lo stesso rito molti anni fa, ai tempi dorati delle elementari. Costeggiavo la scuola, guardando a sinistra, a piedi o in bici; gli equiseti, caparbi, si inerpicavano allo stesso modo verso la strada, per non cadere nel fosso che la accompagnava. Mi sono sempre piaciuti, fin da quando la maestra ci spiegò che la stessa volontà li teneva in vita da milioni di anni.
Dopo gli equiseti, il fosso, dove alcuni dei miei amici, dopo la scuola, vanno a rane, Ma non è un posto buono, è meglio se andiamo fino al bacino, là non ci saranno auto a molestarle. Il fosso termina nel boschetto, ed accanto, campi, quasi sempre coltivati a mais; a ridosso dell'estate, quando il granoturco é ancora basso, e la scuola è agli sgoccioli, lo sguardo si perde fino alla strada del conte, e alle sue sparute case. Oltre, dove l'occhio non arriva, ancora campagna, la strada del frassine, il bacino, via acquador, qui cominciamo ad essere lontani, torniamo indietro, i filari di vite, la piazzetta, il pompon, e la strada di sassi di casa mia.
Tutte queste cose sono state, la maggior parte è ancora. Il fosso é stato interrato, gli equiseti si sono spostati lentamente altrove; un buon numero ora cresce dietro casa, incurante della soia. I primi campi accanto alla scuola si sono sacrificati all'edilizia. Mi domando quanto avranno il coraggio di resistere gli altri.
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