Canto di pace

E' vero che Neruda è violento. Ma è anche vero che spesso questa violenza è stata messa al servizio di concetti solari. Riporto in questo post l'ultimo spezzone di un'ode, che reputo, personalmente, uno degli inni di pace e di fratellanza più riusciti al mondo. Composizione, oltretutto, imbevuta di un forte attaccamento per la propria terra, nel quale mi riconosco.
Traduzione, one more time, di Salvatore Quasimodo.

[...] Ed ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno alla Patagonia, dove
il vento fa vibrare le stalle
e spruzza ghiaccio
l’oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.


Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere,
vicino all’araucaria selvaggia,
al forte vento che soffia dal Sud.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo a tutta la terra, battendo
dolcemente le nocche sulla tavola.
Io non voglio che il sangue
torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica:
ed io voglio che vengano con me
la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole
e che escano a bere con me il vino più rosso.

Io qui non vengo a risolvere nulla.

Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.

Pablo Neruda, Que Despierte el Lenador, VI, 38-72

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