Gioielli di acciaio

Della recente sfera metallica, solamente un paio di album mi hanno colpito, nonostante la rifioritura di molti nomi blasonati (Symphony X, Rhapsody of Fire, Amon Amarth e Communic, per citare le uscite più eclatanti). Due album da due band, oltretutto, che abitano su pianeti completamente diversi, ma che condividono, oltre alla nazionalità statunitense, un importante punto comune: la capacità di innovare e proporre qualcosa di nuovo nell'ambito metal dal suo interno.
Arrows and Anchors è il quarto album dei Fair to Midland, band che nasce nel 1998 e cresce sotto la protezione di Serj Tankian, frontman dei System of A Down. E' praticamente impossibile voler etichettare la band e il suo album con un genere; volendo azzardare, potremmo dire che siamo di fronte ad una sensazione progressive, nel senso sperimentale del termine. Perché l'album è un autentico calderone: dalle chitarre sincopate al banjo, dagli accenni di screaming al basso ultradistorto, da linee vocali eteree a sfuriate metalliche, e nonostante tutto l'album scorre come acqua, in un unico flusso che ricorda Tool, Mechanical Poet, 3 (Three) e pesca a casaccio nell'universo alternative, fondendo il tutto con una semplicità disarmante, invogliando l'ascoltatore a premere di nuovo play e a scoprire ogni volta sfumature diverse. Gli strumenti non si chiudono in loro stessi (gli assoli sono praticemente assenti) ma sono al servizio del pezzo e, ciliegina sulla torta, delle impressionanti linee vocali che catturano e rinnovano ad ogni ascolto. Non un riempitivo, non un punto basso. In ambito post-prog, non sentivo nulla del genere da anni (2006 - 10000 days, 2004 - Woodland Prattlers, 2007 - The End Has Begun, per ricordare le band citate in precedenza). Ascoltare per comprendere.
I While Heaven Wept, che si erano fatti ben notare negli anni passati con un paio di album sopra la media, propongono un'operazione simile in generi musicali ben più classici, in quanto alleggeriscono il doom, uno dei sottogeneri più pesanti ed oscuri, con elementi ripresi dalla lunga tradizione prog-power. Il risultato è sorprendente: Fear of Infinity è l'album più epico degli ultimi cinque anni. In poche note (sette pezzi) sono concentrate tonnellate di idee e intuizioni, ma l'effetto finale, anche in questo caso, è una omogeneità di fondo che pochi album possono vantare, e che non stanca nemmeno dopo settimane di ascolti. Le vocals azzeccatissime ed ultraepiche sembrano uscire da una demo tape di qualche oscura band epic doom di inizio anni ottanta, ma allo stesso tempo la produzione è pulita ed ultramoderna. L'atmosfera greve e apocalittica intrecciata dalle chitarre, decisamente doomish, è impreziosita dal costante apporto delle tastiere, decisamente power, senza che per questo i pezzi perdano in potenza; perfino basso e batteria si rimettono in gioco con oltraggiosi blast beat recuperati dal metal estremo. Menzione d'onore per Unplenitude, ballad oscura ed eterea, che trascina la mente in infiniti spaziali ed ignoti, come titolo d'album vuole. Una lezione dolorosa per tutti quelli che ancora si illudono di scrivere musica epica (chi ha detto Manowar?).

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