La visceralità del dialetto

"Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C'è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended preso coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre inchiavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un'altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose.
Ma questo nòcciolo di materia primordiale (sia nei nomi che in ogni altra parola) contiene forze incontrollabili proprio perchè esiste in una sfera pre-logica dove le associazioni sono libere e fondamentalmente folli. Il dialetto è dunque per certi versi realtà e per altri versi follia.


Sento quasi un dolore fisico a toccare quei nervi profondi a cui conduce basavéjo e barbastrìjo, ava e anguàna, ma anche solo rùa e pùa. Da tutto sprizza come un lampo-sgiantìzo, si sente il nodo ultimo di quella che chiamiamo la nostra vita, il groppo di materia che non si può schiacciare, il fondo impietrito.
Non dico che questo è il dialetto, ma che nel dialetto c'è questo. So bene che non solo nel dialetto c'è questo, anzi ancor più in quell'altro dialetto degli occhi e degli altri organi del senso, quando il caso o certe disposizioni emotive determinano uno sfasamento tra il mondo delle parole e quello delle cose."

Luigi Meneghello, Libera Nos A Malo, cap. 5. 1963.

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