Come i treni a vapore

Da non molto, il trenino della felicità verso casa presenta (ogni tanto) le nuove carrozze: bellissime, pulite, attrezzate. Addirittura un paio di prese elettriche per ogni gruppo di quattro sedili. Per pura curiosità e diffidenza, ho provato a ricaricare il cellulare ogni volta in cui vi sono salito; per otto volte consecutive, le prese non erano alimentate. Oggi, al NONO tentativo, finalmente funzionavano.


Trenitalia sta migliorando il proprio servizio. Ma senza eccessiva fretta.

Redenzione

Stamattina è arrivata la notizia dell'arresto di Ratko Mladić. E' stato impacchettato e spedito all'Aia. Ma quale punizione si può dare a una persona del genere? Se marcisse in cella per il resto dei suoi giorni, se vivesse tre anni con ogni famiglia distrutta, se morisse cinque, dieci volte per ogni volto di Srebrenica, non restituirebbe i figli ai padri, i nonni ai nipoti, le mogli ai mariti. L'impotenza è la più terribile delle consapevolezze; le più ardenti fiamme dell'inferno mai la cancelleranno.

Il matto del barbiere

Giocai la mia prima partita a scacchi ai tempi in cui la formichina dei denti ancora nascondeva un soldo sotto al cuscino. Alla Festa dei Ragazzi, furono organizzati tornei di dama e scacchi; gli animatori, assetati di punti, iscrissero in massa tutta la contrada. Molti di noi, me compreso, avevano visto la scacchiera solo col binocolo; ci dedicarono dunque una mezzora per illustrarci il matto del barbiere, nella fioca speranza, se non di mettere in saccoccia una manciata di punti, almeno di sfoltire le file nemiche. Purtroppo, però, nessuno mi spiegò che in ogni turno si può muovere un solo pezzo, arrocchi esclusi. Alla prima partita, mi toccarono i pezzi bianchi; pensai che la fortuna mi arridesse. Con una certa eleganza (lo devo ammettere), eseguii da buon automa l'apertura che mi era stata inculcata, spinta del pedone di re, sviluppo della regina in h5, sviluppo dell'alfiere di re in c4; dopodichè, guardai soddisfatto il mio avversario, convinto di averlo messo nel sacco con il mio potente spiegamento di forze. Con una certa soddisfazione, gli lessi in faccia una incredulità disarmante (compresi in seguito che, per la sorpresa, non riuscì nemmeno a ridere).
Persi la partita.

Gorgazzo e Polcenigo

Non riesco mai ad essere completamente contento dei miei scatti; trovo sempre qualche particolare che non mi convince. La situazione non è totalmente frustrante; mi piace pensare che sia condizione necessaria per migliorare.
La zona di Polcenigo è felicemente prodiga di ottimi soggetti da fotografare; il colle di San Floriano, le Marcite, le sorgenti di Livenza e Gorgazzo, l'antico borgo stesso. Destare così tanti elementi dal sonno etereo che li avvolge, nonostante la vicina civiltà, mette soggezione; ho quindi disturbato solo gli ultimi due soggetti.
Per la sorgente del Gorgazzo ho mantenuto i colori originali, già sufficientemente carichi per propria natura. Il filtro polarizzatore ha aiutato il primo scatto; ma la luce minore mi ha costretto ad aprire al massimo il diaframma, perdendo moltissima profondità di campo. Ho quindi provato ad appoggiare la macchina su di una roccia (non ero munito di cavalletto) per chiudere al massimo e usare tempi lunghi; il risultato è il secondo scatto, più piacevole per nitidezza ed effetto vellutato dell'acqua. Purtroppo, l'appoggio di fortuna mi è costato una composizione scarsa e un intruso in basso a destra.
Il borgo senza tempo di Polcenigo mi ha chiesto una notevole desaturazione dei colori per restuire un briciolo della sua atmosfera. Anche qua, molti difetti costellano gli scatti; la pioggia impellente, latrice di impazienza, non ha aiutato. Ammetto, comunque, di essere piuttosto soddisfatto degli scuri vegliardi che chiudono il post.

From Polcenigo-Gorgazzo
Canon EOS 450D con Canon EF-S 18-55mm f/3.5-5.6 IS @18mm; 1/50 sec, f/3.5; ISO 400.

Canon EOS 450D con Sigma 10–20mm f/4-5.6 EX DC HSM @20mm; 2 sec, f/32; ISO 100.

Canon EOS 450D con Sigma 10–20mm f/4-5.6 EX DC HSM @10mm; 1/125 sec, f/4.0; ISO 200.

Canon EOS 450D con Canon EF-S 18-55mm f/3.5-5.6 IS @49mm; 1/100 sec, f/5.6; ISO 200.

Canon EOS 450D con Canon EF-S 18-55mm f/3.5-5.6 IS @18mm; 1/200 sec, f/4.0; ISO 200.

Canon EOS 450D con Canon EF-S 18-55mm f/3.5-5.6 IS @18mm; 1/200 sec, f/4.0; ISO 200.

Folaga, uccello-pesce

Consiglio a tutti la lettura de La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene, il primo ricettario/saggio sulla cucina italiana, redatto sul finire del diciannovesimo secolo dal gastronomo Pellegrino Artusi. In primo luogo, perché è interessante scoprire come la cucina italiana sia evoluta nell'arco di cent'anni e ancor di più; vi si trovano ricette usate ancora, e altre cadute in disuso, ma che sarebbe interessante riscoprire. In secondo luogo, per lo stile brillante dell'autore, spigliato, ironico e divertente, caratteristica più unica che rara in un ricettario.
La folaga, oltre ad essere uno degli uccelli acquatici più belli ed eleganti (e paurosi: non sono mai riuscito a scattare una foto migliore di quella, mediocre, proposta in questa sede), è anche un piatto forte della cucina veneta povera; in particolare, del Veneto Orientale, che di acque è generoso, palustri, lacustri, marine o fluviali che siano. La carne nera, di cacciagione, è difficile da trattare in cucina; la folaga non fa eccezione, ma le mani giuste la rendono una prelibatezza.
L'opinione dell'Artusi mi incuriosiva, e mi ha stupito per un paio di ragioni. La prima è la scarsa considerazione che egli concede alla carne di folaga; la seconda è riassunta nella frase in grassetto. Non ho trovato, in famiglia e in rete, alcun altro riferimento all'usanza. Divertente!


"La folaga (Fulica Atra) si potrebbe chiamare uccello pesce, visto che la Chiesa permette di cibarsene ne' giorni magri senza infrangere il precetto. La sua patria sono i paesi temperati e caldi dell'Europa e dell'Africa settentrionale, e come uccello anche migratorio viaggia di notte. Abita i paduli e i laghi, è nuotatore, nutrendosi di piante acquatiche, d'insetti e di piccoli molluschi. Due sole specie trovansi in Europa. Fuori del tempo della cova le folaghe stanno unite in branchi numerosissimi, il che dà luogo a cacce divertenti e micidiali. È assai cognita quella con barchetti, chiamata la tela, nelle vicinanze di Pisa sul lago di Massaciuccoli, di proprietà del marchese Ginori Lisci, che ha luogo diverse volte nell'autunno inoltrato e nell'inverno. Nella caccia del novembre 1903, alla quale presero parte con cento barche cacciatori di ogni parte d'Italia, furono abbattute circa seimila folaghe; così riferirono i giornali.
La carne della folaga è nera e di poco sapore, e pel selvatico che contiene bisogna, in cucina, trattarla così:
Prendiamo, ad esempio (come ho fatto io), quattro folaghe e, dopo averle pelate e strinate alla fiamma per tor via la gran caluggine che hanno, vuotatele e lavatele bene. Dopo trapassatele per la lunghezza del corpo con uno spiedo infuocato, poi tagliatele in quattro parti gettando via la testa, le zampe e le punte delle ali; indi tenetele in infusione nell'aceto per un'ora e dopo lavatele diverse volte nell'acqua fresca. Dei fegatini non me ne sono servito; ma le cipolle, che sono grosse e muscolose come quelle della gallina, dopo averle vuotate, lavate e tagliate in quattro pezzi, le ho messe pure nell'infusione.
Ora, fate un battuto, tritato fine, con una grossa cipolla e tutti gli odori in proporzione, cioè sedano, carota e prezzemolo, e mettetelo al fuoco con grammi 80 di burro, e nello stesso tempo le folaghe e i ventrigli condendole con sale, pepe e odore di spezie. Quando saranno asciutte bagnatele con sugo di pomodoro o conserva sciolta in acqua abbondante per cuocerle e perché vi resti molto intinto. Cotte che sieno, passate il sugo e in questo unite un petto e mezzo di folaga tritato fine e altri grammi 40 di burro, per condire con esso e con parmigiano tre uova di pappardelle o grammi 500 di strisce che, pel loro gusto particolare, saranno lodate. Le folaghe, con alquanto del loro intinto, servitele dopo come piatto di companatico che non saranno da disprezzarsi. Tutta questa roba credo potrà bastare per cinque o sei persone.
Ho inteso dire che si ottiene anche un discreto brodo cuocendole a lesso con due salsicce in corpo."

da La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene. Pellegrino Artusi, 1891.

Run away from the (photo)hunter

La campagna dietro casa, a est di Concordia, è prodiga di fauna avicola: in un'oretta scarsa, ho riconosciuto un airone, penso un cenerino (Area cinerea), era piuttosto lontano per maggiore precisione; un paio di garzette (Egretta garzetta); svariati germani reali (Anas platyrhynchos); e addirittura un paio di rondini comuni (Hirundo rustica), oramai sempre più rare nelle nostre zone. Purtroppo, non sono riuscito a catturare tutte le specie in foto decenti; posto le più significative.
La genesi dell'ultima foto merita un piccolo inciso. Non avevo notato, all'inizio, l'intera famiglia, ma soltanto uno dei piccoli germanotti reali; immaginando che vicino ci fosse il resto della combriccola, mi sono avvicinato lentamente, scendendo verso il corso d'acqua. Dopo aver scattato una foto al pulcino (piuttosto scarsa), mi sono allontanato generando una punta di rumore; la madre, fino a quel momento nascosta, si è impaurita e ha incitato alla fuga l'intera famiglia. Non era nelle mie intenzioni diventare uno stalker di madurini; ad ogni modo, ciò mi ha concesso uno scatto, se non perfetto, almeno divertente.

From Uccelli di campagna
Canon EOS 450D con Canon EF-S 55-250mm f/4-5.6 IS @250mm; 1/1600 sec, f/5.6; ISO 200.

Canon EOS 450D con Canon EF-S 55-250mm f/4-5.6 IS @250mm; 1/1600 sec, f/5.6; ISO 200.

Canon EOS 450D con Canon EF-S 55-250mm f/4-5.6 IS @250mm; 1/800 sec, f/5.6; ISO 200.

Canon EOS 450D con Canon EF-S 55-250mm f/4-5.6 IS @250mm; 1/250 sec, f/5.6; ISO 400.

Cima da Conegliano a Portogruaro, sinossi

Il Duomo di Portogruaro non spicca certo nella lista delle chiese più belle d'Italia; non me ne vogliano i compatrioti, ma l'aspetto da chiesa fortificata non invoglia alla visita. Ben più caratteristico è il campanile; il terreno poco stabile lo ha reso un lontano parente di quello della veneziana chiesa di Santo Stefano e della Torre pisana.
La chiesa attuale risale agli inizi del diciannovesimo secolo; della precedente costruzione non ignoro solamente la disposizione, ruotata di un angolo piatto rispetto a quella attuale. L'interno è semplice e spartano; questo non è necessariamente una pecca: entrando, l'occhio è catturato dalla favolosa pala d'altare del Martini, una Presentazione di Gesù al tempio, recentemente riportato a nuova vita da un impeccabile restauro.
Non entro spesso in Duomo; ho rotto il tabù il sabato di Pasqua, attirato dalle fioche luci della Veglia. E' noto che le celebrazioni liturgiche mi coinvolgono poco; ho dunque lasciato che lo sguardo vagasse libero per l'interno, fino ad essere catturato dalla prima pala della navata sinistra. Ho così notato, per la prima volta in tanti anni, una perfetta riproduzione dell'Incredulità di San Tommaso di Cima da Conegliano.
Giovanni Martini, Presentazione di Gesù al tempio.
1515, Duomo di Portogruaro. Particolare.
Un pò di storia per gli interessati che ignorano la vicenda. L'Incredulità di San Tommaso è stata commissionata al Cima dalla Scuola di San Tommaso dei Battuti di Portogruaro, per adornare l'altare della chiesa di San Francesco; tale chiesa è stata demolita secoli or sono ed era posizionata, se non ricordo male, nei pressi della porta di San Gottardo (al secolo, porta di San Francesco, appunto). L'Incredulità di San Tommaso fu l'opera più costosa mai realizzata dal Cima (132 ducati), al punto che il pagamento venne completato solo nel 1509, ben cinque anni dopo la consegna. La pala in seguito è stata esposta in Duomo, ma a causa delle cattive condizioni in cui versava, è stata trasferita più volte alle Gallerie dell'Accademia per restauri; vi rimase nel 1745, dal 1820 al 1831 e dal 1852 al 1854. Sfortuna volle che l'Accademia, durante il secondo restauro, subisse un allagamento che si portò allegramente a spasso per le Gallerie la pala del Cima, danneggiandola ulteriormente. Ormai quasi irrecuperabile, nel 1863 il curatore della London National Gallery, Sir Charles Lock Eastlake, in quel periodo in Italia, giunse a Portogruaro, si innamorò della pala, uno dei più alti vertici compositivi del Cima, e nel giro di 7 anni la comprò per la somma di 45.000 lire dal Comune di Portogruaro; il quale, come clausola, volle aggiungere la realizzazione di una copia da esporre in Duomo. Per chi volesse approfondire, consiglio questo documento trovato in rete; l'intera vicenda è sviscerata nei minimi dettagli, da pagina 301 a pagina 315. Un'alternativa meno accessibile a tanti, ma meritevole di citazione, è il felice saggio sul tema scritto da Giovanni C.F. Villa e contenuto nel catalogo della mostra Cima da Conegliano. Poeta del paesaggio (Palazzo Sarcinelli, Conegliano, 26 febbraio 2010 - 2 giugno 2010), della quale il signor Villa è stato pure curatore. Lo stesso saggio è presente, per concessione dell'autore, nel catalogo della mostra Rinascimento tra Veneto e Friuli. 1450-1550 (Portogruaro, Collegio Marconi, 7 agosto – 17 ottobre 2010).
L'originale è stato riportato in vita dagli inglesi negli anni successivi all'acquisto, e ancora oggi si può ammirare la pala alla National Gallery di Londra, della quale è una delle opere di punta. Se da una parte piango la più grande perdita artistica del Veneto Orientale, dall'altra mi consola sapere che senza il buon Sir Eastlake ora la pala potrebbe essere ben che perduta. La copia in Duomo, fino a poco tempo fa nascosta ai miei occhi, è stata realizzata in quel tempo da Napoleone Eugenio Bonò (1806-1893), portogruarese, che a quanto pare non ha fatto molto altro per farsi ricordare dai posteri, se non una bella panoramica di Venezia, in matita su carta, e un paio di paesaggi in stile ottocentesco, che dovrebbero essere sempre in terra di Gru. Gli va riconosciuto che la riproduzione è perfetta e di pregevole fattura; l'impressione è di avere di fronte agli occhi l'originale.
Non ho mai visitato Londra, nè ci tengo particolarmente a farlo; questa pala ha cominciato a smuovermi verso quella direzione.

Giovanni Battista Cima da Conegliano, Incredulità di San Tommaso. 1504, London National Gallery.

Spaccati veneziani

Non è comune, per la gente normale, visitare Venezia più di una volta nella vita; lo è per i fortunati che vi abitano vicino. A chiunque voglia evitare percorsi canonici in mezzo alla folla di giapponesi, spagnoli e americani, infestanti come la menta, consiglio, una volta tanto, di lasciare ad altri occhi Rialto, piazza San Marco e Accademia e di avventurarsi nelle più silenziose calli del sestiere Castello, fino alle porte di Palazzo Querini Stampalia.
E' noto come Venezia sia un museo a cielo aperto; un palazzo del genere, in un luogo leggendario, passa quasi inosservato. Qualsiasi altra città lo citerebbe tra i monumenti più importanti: la famiglia Querini era tra le più antiche e ricche di storia tra quelle veneziane. Gli occhi dei primi hanno visto nascere la Serenissima stessa; le mani dell'ultimo hanno donato all'umanità l'immenso tesoro artistico accumulato durante secoli di storia.
Tra i tanti Bellini, Palma (il Vecchio e il Giovane), Tiepolo, Longhi e Ricci (Marco e Sebastiano), mi ha incuriosito più d'altro il ciclo di Gabriel Bella. Il nome non evoca opere indimenticabili; più artigiano che pittore d'elite, il Bella ha dipinto su commissione una settantina abbondante di quadri che indagano una realtà veneziana lanciata verso la propria estinzione (tutti i quadri del ciclo sono databili attorno al penultimo decennio del diciottesimo secolo). Non si studia certo a scuola la vita sociale di un veneziano del periodo; consiglio una sosta prolungata in queste stanze, senza ovviamente trascurare il resto. La grande quantità di feste organizzate nei campi, addirittura a pagamento; la crudeltà di certi giochi con gatti, orsi od oche (sapere che erano diffusi in tutta Europa non allevia il fastidio); la licenziosità vigente, visti i corsi (sfilate) di cortigiane in gondola; l'ironia tutta moderna della visita delle novizie (le spose novelle) alle parenti-zittelle, costrette dall'età avanzata alla clausura in convento, per renderle edotte della felice novità; l'assenza di lutto ai funerali del doge, perché muore l'uomo, non la Signoria; tutto questo inonda Venezia di una luce più vera, togliendole la patina da vetrina che tanti amano guardare superficialmente.